Veniamo ora a un'autentica "chicca", la punta di diamante delle "argomentazioni" di coloro che in questa sonnolenta Italia si ostinano a ritenere che la pronuncia del latino in uso nelle scuole fosse quella di Cesare e di Cicerone - e che addirittura la proiettano nel passato più remoto, attribuendola persino a Romolo e Remo.
Essi partono dall'opera di Plauto, isolano un singolo brano e lo presentano come prova definitiva e inconfutabile delle loro inquiete quanto vane elucubrazioni. Se poi uno li contesta, ecco che lo accusano di essere "disonesto". Queste sono le citazioni dei nostri avversari:
"C'è invece una testimonianza contraria alla restituta in Plauto e consiste in un gioco di parole, tra "socia" e "sosia" (Amphitruo 218), che sarebbe stato impossibile se davvero si fosse detto "sokia"."
"Errata Corrige post precedente
1) non Socia ma socium
Questo è il brano dell'Amphitrio:
italiano
MERCURIO: Dicevi di essere "Sosia", (servo) di Anfitrione.
SOSIA: Mi ero sbagliato: volevo dire di essere "socio" di Anfitrione.
Latino
MERC.: Amphitruonis te esse aiebas Sosiam.
SOS.: Peccaveram, nam Amphitruonis socium memet esse volui dicere"
Fatto questo, arrivano a ventilare l'ipotesi di un complotto. Così affermano che i fautori della pronuncia restituta del latino, da loro assimilati a una setta occultista, avrebbero usato la loro supposta influenza per tenere nascosti i fatidici versi di Plauto:
"Spero che tu sappia com'è la 'scienza' linguistica, che quel brano è stato proposto più volte per essere emendato, mi riferisco al famoso brano “scomodo” di Plauto, dove non era concepibile che 'Sosia' potesse essere confuso con 'socium', il 'soKium' della restituta, ma nessuna correzione, grazie al cielo, è stata ritenuta del tutto convincente nel 1800 (chiedimi i riferimenti che te li do) e si è preferito nel 1900 passare il brano sotto silenzio, sperando che tutti lo dimenticassero. Invece, stranamente, in silenzio, a differenza di tanti altri persi e corretti, il brano si è conservato."
Certo, certo, ci sono in ballo i terribili Rettiliani, i Rotschild e gli Illuminati. E c'è anche la marmotta che confeziona la cioccolata!
Motivo di questo complotto: i fautori della restituta tremerebbero di terrore alla sola menzione del gioco di parole tra socium e Sosiam, presentato come evidenza della pronuncia ecclesiastica /'sočus/ vigente dalla notte dei tempi. Magari i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno potrebbero sottoporre il caso a Cacioppo e vedersi dedicare qualche minuto in Kazzenger.
Sgombriamo ora il campo da questi vaniloqui cospirazionisti.
Già il Lindsay liquidava questo ridicolo argomento in modo molto efficace. Riporto la traduzione in italiano delle sue considerazioni, affinché tutti gli eventuali lettori le comprendano (The Latin Language, 1894, § 94, pag. 87-88):
« Sul fatto che c e g rimanessero dure davanti ad e, i e consonante (quando non seguiva una vocale), fino al sesto e al settimo secolo d.C., abbiamo una sovrabbondanza di prove. Per il periodo precedente, possiamo notare il fatto che in umbro, dove c (k) davanti a una vocale stretta* divenne una sibilante ed esprimeva il suono con un segno particolare nell'alfabeto latino, la lettera latina c non fu usata per questo suono nelle iscrizioni (dal tempo dei Gracchi) scritte in caratteri latini, ma usava una s modificata, per la precisione una s con un segno simile a un accento grave su di essa, es. desˋen (Lat. decem), sˋesna (Lat. cena). Che Plauto (che tra l'altro era umbro) faccia un gioco di parole su Sosia e socius, non prova nulla (Amph. 383) :
ÁMPHITRUONIS TE ÉSSE AIEBAS SO/SIAM.- PECCÁUERAM :
NAM 'ÁMPHITRUONIS SÓCIUM' DUDUM ME ÉSSE VOLUI DICERE.
Egli fa un gioco su arcem ed arcam in Bacch. 943 :
ATQUE HIC EQUOS NON IN ARCEM VERUM IN ARCAM FACIET IMPETUM. »
*In inglese sono chiamate "narrow vowels" le vocali anteriori.
Le parole arcem /'arkem/ e arcam /'arkam/ sono senza dubbio state ideate come assonanti, avendo radici omofone /ark-/ e desinenze entrambe nasalizzate, seppur con vocali diverse.
Sul fatto stesso che socium e Sosiam fossero stati ritenuti da Plauto come una reale assonanza, mi permetto invece di nutrire qualche dubbio. A prescindere dalla differenza di consonante (che sussisterebbe anche ammettendo una palatalizzazione), la finale -am non poteva somigliare molto a -um. Le vocali atone di arcem e arcam non mostrano la drammatica distanza di una -u- da una -a-, che si trovano ai capi opposti di uno spettro sonoro. Ciò che Plauto intendeva mettere in scena non era un'assonanza, ma un fraintendimento. Ha attribuito alla macchietta Sosia l'idea che Mercurio avesse i tappi di cerume nelle orecchie.
Né si può ammettere il cosiddetto "argomento di Stalin", così chiamato dal fatto che il dittatore georgiano, parlando male il russo, tendeva a sorvolare sulle desinenze realizzandole in maniera inistinta. Il parlante latino doveva essere per necessità ben attento alle desinenze, specie in epoca antica, essendo esse determinanti nell'attribuire senso compiuto alle frasi, molto più di quanto non fosse la posizione delle parole nella frase. I moderni non sono abituati a tutto ciò e si lasciano spesso ingannare da una frase come "philosophum non facit barba".
Se anche socium e Sosiam fossero stati concepiti come assonanti nella radice, si potrebbe ammettere che Plauto abbia fatto uso a fini scenici di una pronuncia alterata, che presentava per l'appunto il suono /š/ davanti a vocale anteriore. Questo non dimostrerebbe nulla a proposito della pronuncia ecclesiastica, che è del tutto diversa e ha un'affricata /č/ che difficilmente potrebbe essere confusa con una s. Per la natura del suono, una parola con /č/ non sfuggirebbe a un orecchio anche poco attento.
In altre parole, se anche Plauto avesse inteso usare tratti fonetici della sua nativa lingua umbra, riproducendo socius /'sokjus, 'sokius/ come /'sošjus/, la cosa non avrebbe alcun valore probante. L'intera questione non avrebbe niente a che fare con gli sviluppi del latino nelle lingue romanze.
Le pronunce guittesche sono sempre state comuni: l'attore per necessità tende a deformare il linguaggio oltre ad ogni limite, creando addirittura propri dialetti che non sono necessariamente parlati da altri. In quest'epoca di oscenità e di degenerazione, i guitti del Circo Zelig e di Striscia la Notizia ci hanno abituati a ogni sorta di alterazione della pronuncia al fine di destare ilarità negli spettatori. C'era uno di questi comici che usava pronunciare la -à finale come -è, dando quasi l'impressione di esibirsi in incauti pseudo-francesismi - così se ne usciva sempre con l'esclamazione "un po' di umiltè". Una volta mi capitò di imbattermi in un altro comico, che cantava "la solitüdine" e favoleggiava di una fantomatica partita Seregno-Pitügno (Seregno è la mia città natale, mentre Pitugno è semplice parto di fantasia). Un altro ancora aveva tentato un esperimento bislacco, alterando l'italiano come se la velare -c- del latino non si fosse mai palatalizzata, e così diceva "i miei amiki". Tuttavia non era arrivato a fare altrettanto con -g- e diceva regolarmente "gente", etc. Ricordo anche uno sketch di Gigi e Andrea, in cui quest'ultimo, travestito da anziana signora, sostituiva a ogni /w/ una /v/, dicendo "una svora", "la svocera", e la memoria non m'inganna addirittura "Edvardo". Cosa dedurrebbero ipotetici studiosi di un lontano futuro analizzando simili documenti? Ammettendo che le testimonianze di questo nulla mediatico possano durare tanto, potrebbero essere portati a trarne, specie in mancanza di informazioni, deduzioni erronee.
Conclusioni
Il solo pensiero di espungere o di emendare un brano come quello dell'Amphitruo è un'assurdità. Bisogna partire dai dati di fatto e capire il perché di ciò che si osserva, non piegare la realtà dei fatti alle proprie idee preconcette, come fanno i nostri avversari. In questo post ho preso il dato di fatto e ne ho fornito una spiegazione in linea con quanto sappiamo della fonetica della lingua latina e dei suoi mutamenti nel corso dei secoli. Se poi altri non hanno fiducia nella linguistica e preferiscono votarsi alla pseudoscienza, non farò passare i loro sproloqui: sarò sempre uno strenuo combattente determinato a contrastarli.